Il fastidio non era svegliarsi presto. Quello mi piaceva. Mi piaceva sapere tutti gli altri, il mondo resto ancora addormentato.
No, il malessere era varcare i cancelli di quel recinto e sentire l’odore di muffa di tabacco fermentato.
I visi stemperavano l’alba, pure oltre il varco della timbratura. Ogni buongiorno era strascicato, impastato di sonno e dentrificio.
– Buongiorno Stefano. La senti oggi, la malaria è terribile. Pare ‘na mufeta.
– Artù mangiamo fatica e chiavica!
Il cortile era acqua e anice per la nebbia. I lampioni stentavano nel giallo ocra. Pochi passi e lo spogliatoi gelido pareva fucina spalancata, coi fiati a farsi nuvole di rabbia. Camice brunito e berretto calato sui baffi. Iniziava la giornata e pure la puzza sembrava farsi a lato.
I giorni erano contati come le sigarette spurie nel pacchetto moscio. Fumavo senza filtro, Camel senza filtro, in barba alle Ms che impacchettavamo. Stefano ne aveva sempre delle mie, tra l’indice e il medio troppo giallo di nicotina. Stefano coi suoi pantaloni troppo corti e il ventre da incallito bevitore. Amico prima che fratello o nello stesso modo. Fragile, spaccone, coi capelli lunghi e il naso troppo grosso per rimorchiare donne.
Alle dieci del mattino, di ogni santo turno di mattina, la tufa faceva Uè Uè per fermare tutto e fare colazione. Mi appartavo con in mano col curillo con pomodori e tonno, tra i ripiani dei pallet e scatoloni vuoti per le stecche.
Il vino rosso grattava in gola, appena in tempo per il primo sorso, Stefano mi aveva già raggiunto con tutto il ben di dio che si poteva solo immaginare.
– Artù l’hai vista?
– A chi? me faje mangià in santa pace?
– Ma comme a chi, quella che ti piace tanto, che guardi sempre e non hai il coraggio di fermare. Siente Artù, ma che ci vuole. Fa l’omme. Tu l’avvicini con garbo e lasci che le cose vanno per il verso loro. Ma che ce vò!
– Ma di chi parli, non me ne piace nessuna.
Mentivo spudoratamente.
In quell’inferno di sputi e mofete, di tabacchi di terza categoria, i turni erano lieti e sapevano di ginestre e brezza marina solo perché Maria, dall’altro capo della grande sala, metteva le fascette ai pacchetti di Esportazione.
La guardavo di sotto al berretto. Volevo farmi come quei pacchetti verdi colla caravella stampigliata. Farmi sigarette Esportazione e lasciarmi sfiorare dalle sue mani, collo smalto prugna.
Il capannone sapeva di stantio e di crisantemi marci. Pioveva quell’alba col primo turno. Pioveva perfino nel collo della mia camicia, nelle tasche rotte. Inzuppava le mani e i miei pensieri torvi di rammarico.
Potevo finire gli studi universitari, diventare dottore per tutta la vita. Potevo sapermi tale e altro, ma avevo scelto il qui, l’adesso, l’indipendenza, l’andar via di casa, da quella casa troppo piccola per cinque figli, dal mio dormire in cucina in un mobile a scomparsa.
Il trac del marcatempo infastidiva come ogni mattina. L’umido si mischiava al sudore rattrappito della prima sveglia e alle barbe incolte di molti compagni, in quello spogliatoio.
– Marò il lunedì lo abolirei per decreto – si lamentava Stefano – inizierei direttamente dal mercoledì.
Non avevo voglia di rispondere. Mi doleva la schiena per quel materasso infossato su una rete smollata. Devo cambiarla, mi ripetevo a testa bassa mentre di corsa, sotto l’acqua appassionata, guadagnavo il capannone.
Nella foga mi scontrai con un corpo. L’entrata era stretta a passarci in due. Alzai il capo pronto alla reprimenda. Mi avvolse il suo profumo e il morbido del seno sbattuto malamente contro il mio.
– Scusami, riuscire a farfugliare.
Maria guardò. Pochi secondi stranito a tanto. Pupilla ad occhio, rossore per davvero. Scappò senza girarsi mai.
Fuori un lampo senza tuono diede luce al cortile. Volevo tornarmene a casa con quell’odore addosso di mughetto e lavanda.
– Se vado lì in mezzo a tanto fetore, lo perderò il suo odore. Smetterà di parlarmi di labbra rosse e carne candida come marmo.
La calca mi travolse. Il vociare dei compagni mi spinse dentro.
– Artù ma che tieni stamattina. Mi pari imbambolato. Hai dormito male?
– Niente solo un raffreddore, smozzicai per pensare ad altro.
continua
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