Aneillo ri Ciccuzzo di BiagioFioretti

Aniello Cammarano ri Ciccuzzo era artigiano nella più limpida tradizione di famiglia. Come il papà Ciccuzzo, Aniello era un artigiano del pellame. Ciabattino e scarparo  se volete, ma non solo quello.

Non facevano solo scarpe, ciabatte o zoccoli  a seconda del censo del cliente.  Erano questo, pure se negli ultimi decenni, Aniello vendeva solo quelle industriali.

Padre e figlio erano artigiani abili nella realizzazione degli otri. Non c’era la plastica in quegli anni e il vetro era materiale prezioso assai. Per il trasporto del vino e soprattutto dell’olio pisciottano, si usavano otri ricavati dalla pelle di una capra.

Piccolo Fiore, amico di cuore e memoria storica di questo borgo, mi racconta cogli occhi illuminati da fervore, come si scuoiava la capra per poterne ricavare otri perfetti. Si sflilava tutto la pelle come un sol pezzo, per una zampa dell’animale. Conciata perbenina, toccava agli abili ciabattini cucirla in modo tale da non consentire la fuoriuscita dei preziosi liquidi. A due cuciture oppure ad una sola, era un segreto che si tramandava religiosamente e in gran segreto, come arte sopraffine.

Aniello ri Ciccucco era stato questo e pure altro. Passando da tanta maestria a semplice venditore di scarpe fatte in serie.

Uomo cilentano per carattere e ritrosia, uomo che “se faceve ‘e fatte suoje”. Un negozio, un altro ancora, che si chiude per sempre, come una pandemia.

Ti saluto Aniello, ovunque sei.

BiagioFioretti (diciannovegennaioduemilaundici)

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ABBANDONO di BiagioFioretti

Stamattina seppure a lavoro, accompagno due pisciottani a Fiore. Una donna e un uomo, due personaggi umili, semplici, veraci  e perciò amati per inclinazione.

Immacolata Greco e  Luigi detto Aniello Pisani ‘u Cilindrano. Il mio affetto e il mio cordoglio agli amici e parenti: Carmine, Norma e Battistina; Filuccio, Betti e Vito.

C’è come un detto o se volete una constatazione che qui al borgo si fa sempre quando a lasciarci accade. Si usa dire che qui si muore tenendosi per mano, uno altra. A voler dire: si va via in compagnia con un compaesano.

Si dice e spesso è così. Quasi come se solo in due, si possa trovare il coraggio di allontanarsi da tanta terra e mare o tornare a loro.

Immacolata e ‘u Cilindrano sono assieme ove possono sentire Dio e a noi fa specie l’abbandono, il vuoto che lasciano per sempre.

Vuoto di affettività certo, ma altro ancora.

E’ quel senso dell’ineluttabile che mi attanaglia quando personaggi d’altri tempi lasciano questo lido. La convinzione, come sensazione a pelle, che il borgo e tutti quelli che rimangono  è impoverito per sempre.

Una nostalgia per tutto quello che ho vissuto solo di striscio, nel loro affabulare lento. Quando Pisciotta era di donne e uomini ricchi di valori e propensione, di esistenza plasmata a denti stretti e senza sconti. Dame e maestri di vita, prima di ogni altra cosa.

Vanno via gli ultimi testimoni di una vita fatta di visi in ogni vicolo e piazza, di un paese che era altro e forse migliore. Nostalgia, sentimento insensato per chi ha solo intuito, ascoltato, intravisto.

Così provo abbandono e desolazione. Provo non visto, a coccolare chi rimane e ha negli occhi e nelle mani tutto quello di cui ho struggimento.

 BiagioFioretti (novegennaioduemilaundici)

 

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SAGGIOMO di BiagioFioretti

C’era al borgodellefavole un uomo alto e allampanato. Fumava sigari toscani e questo me lo rendeva a me affine, per similitudine assiomatica. C’era, perché ora non c’è più, almeno non più nella materialità del conosciuto. Era ho detto, al borgodellefavole ma più spostato verso il suo mare. Verso la sua Marina, anche se, a ben pensarci, non ci stava quasi mai.

Era spurio come l’argento coll’oro, eppure personaggio dentro ad ogni pietra e rivolo di questa terra. Per contaminazione, per famiglia quasi tribù, per storia intrecciata come edera al muro.

Portava con orgoglio e diletto, uno dei soprannomi più belli a cui un uomo potesse aspirare. Ne andava talmente fiero che non so o ricordo appena il suo vero nome. Quando si presentava, di persona o perfino al telefono, diceva sempre e solo: …sono Saggiomo.

Saggiomo, saggio uomo. Poco importava se lo fosse davvero. Importava sapere che era una medaglia conquistata sul campo della vita, dell’esistenza.

Qui in Cilento il soprannome è posto, è collocato con spirito e filosofia diversa dalla terra dove sono nato.

Nel napoletano, attorno al cratere, il soprannome è epiteto, è spregio per ferire e mortificare. Lo si subisce come un marchio infamante e per questo non da requie. Passando dall’italiano soprannome  al suo equivalente nella lingua napoletana ‘o strangianomme, si coglie in pieno e palesemente quello che è il ragionamento che lo pratica e lo sommuove.

In Cilento ogni grumo di case che si pregia di chiamarsi paese, ha cultura a sé, per storia, dialetto, arroccamento. Tutto quello che è oltre l’uscio e lontano dal focolare è l’altro, è straniero. I contatti e gli scambi erano, per orografia e brigantaggio, limitati e quasi scarsi. Ci si sposava in ogni censo, nell’ambito della famiglia o, se si era davvero rivoluzionari, nello stesso paese o contrada. I miserrimi lo facevano per indolenza e per destino avverso; i signori con la scammerica, la redingote, solo per preservare ed allargare la robba del casato.

Pochi cognomi dunque, si spartivano le tante teste e bocche di un borgo simil fatto. Pure la devozione a qualche santo faceva il resto.

Come distinguere allora un Aniello Mautone da un altro Aniello Mautone? Un Vito Greco da un Vito Greco vicino di casa magari?

Il soprannome era ed è l’uovo di Colombo.

Aniello ri Filuccio, Vito ri Carmela, Giuvanno e Cap’o Tule, Rabbiele ‘u funtanaro delineavano, individuavano senza errore uno ed uno solo tra le tante omonimie. Qui, a sigillo della magnificenza, il soprannome non scompare col decesso del titolare, ma si eredita di padre in figlio come ‘u per’avulivo e le iaddine.

Saggiomo era più che un personaggio. L’aria sapeva della sua aurea e dell’odore inebriante del toscano, aspirato come una sigaretta. Sapevi che esisteva, che calcava questa terra ma a scovarlo era un’impresa non per tutti.

Come quelle leggende che col tempo e nel raccontarle, di bocca in bocca, davanti ad un bicchiere di rosso e alle volute di toscano, non risolvi più se sono tali o appartengono alla storia.

Saggiomo non è più. E poca importa come.

Starò, staremo sempre a chiederci se è vero o se è soltanto una storia, come le tante altre, raccontata per farci compagnia.

BiagioFioretti (seigennaioduemiladieci)

 

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TRE di BiagioFioretti

 

Al tre si ricomincia. Verbo che fa fatica, che opprime e che sembra quasi necessario.

L’inizio ha vuoti di testa e di mani.  Ti sgomenta  mettere quel primo piede dietro all’altro e sorprendersi della facilità del camminare, del non averne dimenticato il nesso. I muscoli son tesi, tutto è all’unisono, come il guidare l’auto, senza pensare più ai singoli gesti. E quando il moto è oramai sincrono con la mente, godere perfino dell’’abbrivio, velocità senza motore, come un lento scivolare ancora, senza smuovere né provocare onde.

Tre di gennaio di una convenzione che chiamiamo anno nuovo.

Tre, che fa pari coi miei giorni, anni pure quelli, di tutto il quotidiano. Anno nuovo solo come istante, da colorare o inventarsi, di brivido o si sola consolazione, pensando al baule sulle spalle. Di ricordi e sensazioni zeppo, di amori lasciati tuo malgrado, fuori da quel bagaglio. Per tua maldestra incomprensione o solo per natura che chiede morte per una vita nuova.

Anno nuovo appunto. Speranza di un inizio, nel tramonto pur’esso lucido e mai usato.

BiagioFioretti (tregennaioduemilaundici)

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GENIA di BiagioFioretti

Nel mio vivere di sassi e pietra, tra vicoli e case diroccate, per incuria o solo per fuga di giovani vite, ho un libro aperto, quasi un album. Un facebook pisciottano, reale però più della vita stessa. Anzi della vita porta pieghe e piaghe. Visi in pagine che incontro tutti i giorni. In piazza, miez’a Serra, al bar di Mario.

 Sono il farsi me in questo luogo.

 Senza il loro incontro, il loro esserci  sarei diverso  e   da un’altra parte.

Ogni faccia mi dà la certezza di  stare qui, proprio qui al borgo che amo e che sfilaccia tempo e barba bianca. Saperli a casa, privi di incontri per carestia d’età o difesa da malori, mi provoca sbandamenti e quel senso di vuoto che lascia sgomenti.

Sono donne e uomini di una certa età quelle che vi propongo. Personaggi ognuno certamente. Vite spese su questo lastricato, tra affetti, amicizie, piccole cose di una Pisciotta d’altri tempi.

Li amo uno ad uno. Con le mie simpatie e preferenze, lo schivare o il cercali per una chiacchiera, nel sole tiepido che dà tregua.

Li coccolo a modo mio, senza farmi carpire l’intenzione. Con la tenerezza di chi sa che è da godersi ogni loro palpito, ogni languore, tutte le risa e le postura e i tic di ciascuno.

Pagine di personaggi come una genìa dunque, che vanno a dissiparsi, a rendesi linfa della terra per altre vite appresso. Sostanza che  fa santi e donne e uomini silenti, quelli normali dell’uscio accanto.

Li penso, guardandoli spesso da lontano e vorrei che avessero un po’ di me, ovunque porteranno tenda, quando spira il levantino, fioco e lucente dopo una giornata piena.

BiagioFioretti (ventunodicembreduemiladieci)

 

 

  

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PAST’E FASULE di BiagioFioretti

sweet home

“Chiste è tiempo e paste e fasule..” , mi diceva sempre zio Mimì quando ero bambino.

A suo modo e in modo picaresco, il detto raccontava il volersi bene, l’accoccolarsi in casa quando fuori faceva freddo. I fagioli colla pasta erano stati nella sua fanciullezza il pane e la carne per i meno abbienti. Mangiarli rinfrancava corpo e spirito. Evocarli era come un dono di Natale per sé e per un nipote che leggeva di nascosto i suoi fumetti.

Su quel suo stare al mondo, con i Tex Willer e gli Intrepido, i Topolino e i Blek Macigno, lui un mastofravecatore con appena la licenza elementare, dipingevo arazzi di sogni e di fantasticherie. Il comò della nonnaNdunetta era ampio e profondo e il cassettone sapeva di naftalina e carta stampata. Lì in quell’anfratto inviolato e senza fondo, zio Mimì accatastava in bell’ordine tutti i suoi fumetti, proibiti a me per senso di rispetto.

Mi piaceva il suo vespino 50 rosso, fiammante come nuovo, pulito con lo straccio in pelle scamosciata per ogni fine settimana. Tornava coi panni della fatica. Si lavava, barba colla schiuma in punta di pennello e dopobarba dall’odore mai più dimenticato. A volte non cenava neppure per scappare chissà dove. E quando gli chiedevo dove andasse tutto alliccato, abbozzava un sorriso e con un buffetto sulla capa mi diceva: Vache a ffà ammore!

Fare all’amore non aveva riferimenti nei suoi fumetti. Neppure in quelli di Kriminal o Satanik, eroi in calzamaglia, che svelavano curve e rigonfiamenti, ma che si baciavano raramente. Provavo a immaginare, nel buio fresco della casa di nonna, tra un palpito di Diabolik e un’avventura di Capitan Miki, che volesse dire “andare a fare all’amore”. Forse raccoglieva piante per ingraziarsi ‘o malamente di ogni storia e racconto. Piante per fatture e incanti, per smuovere simpatie e qualche bacio?

E vase! Capivo che in fondo al tutto di ogni storia, di eroi di carta o di uomini come zio Mimì, si puntava forse solo a quello: e vase!

Come potevo capire a sette anni, di anni trascorsi a Boscoreale, ‘ncoppe a Roce, quel tutto che sapeva tanto di poco e di quasi niente? Mi arrabattavo, scartando fumetti che puntavano solo sulle avventure di mano o di destrezza. Sceglievo quelli che potevano aiutarmi: svelare come e perché si volesse tanto vasare e ffà ammore.

Zio Mimì poteva tutto ma non aiutarmi in tanto. Sapeva di mani callose e dopobarba ai pini silvestri. Usciva tutte le sere, profumato e con le scarpe lucide, per andare a fare all’amore. A ffà ammore!

Era il mio eroe in carne e ossa e senza nuvolette dalla bocca. In quel cortile interno di una casa d’altri tempi, tra una piscina che era un pozzo e Fonzo mio cugino, con cui litigavo per una gatta o un gioco mal riuscito.

Un eroe zio Mimì, più di mio padre e del fratello Peppe.

BiagioFioretti (diciottodicembreduemiladieci)

 

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INCANTO di BiagioFioretti

Vietri e Raito

 

 

Quando torno, quando torno dalla mia terra, dopo una giornata di luccichii, di nostalgie commoventi, l’auto è un’alcova per l’ultimo atto d’amore in silenzio. Un fare all’amore contro ogni senso, ogni mio senso.

La mente implode di ricordi e mi piace il silenzio notte che avvolge me e  Diletta dietro, distesa a dormire nel calduccio del veicolo.

Fuori l’autostrada lascia la piana vesuviana e si incunea nel calcare di Cava, nel budello tra i Monti Lattari e la costiera amalfitana.

E’ notte appena. Il freddo abbacina e fa cristalli di aria marina.

Mi fermo di colpo. Accosto nella piazzola.

Vietri e Raito spumeggiano come brillanti incastonati da un Bulgari onnipotente. Esco nel freddo mozzafiato. Scatto foto e incanto.

Mi attardo coi brividi perfino sul cuoio capelluto. Quando era capelluto.

Risalgo, riparto. Curvo ancora per un po’. Mi rifermo in piena curva, nella successiva sosta e paracarri.

Salerno la divina è spalancata come abbraccio dell’amata.

Scatto e l’estasi fa il resto. Mi riporta piano piano dall’altra parte, nella Piana del Sele, verso casa mia.

 BiagioFioretti (quindicidicembreduemiladieci)

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TURNO di BiagioFioretti

Il fastidio non era svegliarsi presto. Quello mi piaceva. Mi piaceva sapere tutti gli altri, il mondo resto ancora addormentato.
No, il malessere era varcare i cancelli di quel recinto e sentire l’odore di muffa di tabacco fermentato.
I visi stemperavano l’alba, pure oltre il varco della timbratura. Ogni buongiorno era strascicato, impastato di sonno e dentrificio.

– Buongiorno Stefano. La senti oggi, la malaria è terribile. Pare ‘na mufeta.

– Artù mangiamo fatica e chiavica!

Il cortile era acqua e anice per la nebbia. I lampioni stentavano nel giallo ocra. Pochi passi e lo spogliatoi gelido pareva fucina spalancata, coi fiati a farsi nuvole di rabbia. Camice brunito e berretto calato sui baffi. Iniziava la giornata e pure la puzza sembrava farsi a lato.

I giorni erano contati come le sigarette spurie nel pacchetto moscio. Fumavo senza filtro, Camel senza filtro, in barba alle Ms che impacchettavamo.  Stefano ne aveva sempre delle mie, tra l’indice e il medio troppo giallo di nicotina. Stefano coi suoi pantaloni troppo corti e il ventre da incallito bevitore. Amico prima che fratello o nello stesso modo. Fragile, spaccone, coi capelli lunghi e il naso troppo grosso per rimorchiare donne.

Alle dieci del mattino, di ogni santo turno di mattina, la tufa faceva Uè Uè per fermare tutto e fare colazione. Mi appartavo con in mano col curillo con pomodori e tonno, tra i ripiani dei pallet e scatoloni vuoti per le stecche.

Il vino rosso grattava in gola, appena in tempo per il primo sorso, Stefano mi aveva già raggiunto con tutto il ben di dio che si poteva solo immaginare.

– Artù l’hai vista?

– A chi?  me faje mangià in santa pace?

– Ma comme a chi, quella che ti piace tanto, che guardi sempre e non hai il coraggio di fermare. Siente Artù, ma che ci vuole. Fa l’omme. Tu l’avvicini con garbo e lasci che le cose vanno per il verso loro. Ma che ce vò!

– Ma di chi parli, non me ne piace nessuna.

Mentivo spudoratamente.

In quell’inferno di sputi e mofete, di tabacchi di terza categoria, i turni erano lieti e sapevano di ginestre e brezza marina solo perché Maria, dall’altro capo della grande sala, metteva le fascette ai pacchetti di Esportazione.

La guardavo di sotto al berretto. Volevo farmi come quei pacchetti verdi colla caravella stampigliata. Farmi sigarette Esportazione e lasciarmi sfiorare dalle sue mani, collo smalto prugna.

Il capannone sapeva di stantio e di crisantemi marci. Pioveva quell’alba col primo turno. Pioveva perfino nel collo della mia camicia, nelle tasche rotte. Inzuppava le mani e i miei pensieri torvi di rammarico.

Potevo finire gli studi universitari, diventare dottore per tutta la vita. Potevo sapermi tale e altro, ma avevo scelto il qui, l’adesso, l’indipendenza, l’andar via di casa, da quella casa troppo piccola per cinque figli, dal mio dormire in cucina in un mobile a scomparsa.

Il trac del marcatempo infastidiva come ogni mattina. L’umido si mischiava al sudore rattrappito della prima sveglia e alle barbe incolte di molti compagni, in quello spogliatoio.

– Marò il lunedì lo abolirei per decreto – si lamentava Stefano – inizierei direttamente dal mercoledì.

Non avevo voglia di rispondere. Mi doleva la schiena per quel materasso infossato su una rete smollata. Devo cambiarla, mi ripetevo a testa bassa mentre di corsa, sotto l’acqua appassionata, guadagnavo il capannone.

Nella foga mi scontrai con un corpo. L’entrata era stretta a passarci in due. Alzai il capo pronto alla reprimenda. Mi avvolse il suo profumo e il morbido del seno sbattuto malamente contro il mio.

– Scusami, riuscire a farfugliare.

Maria guardò. Pochi secondi stranito a tanto. Pupilla ad occhio, rossore per davvero. Scappò senza girarsi mai.

Fuori un lampo senza tuono diede luce al cortile. Volevo tornarmene a casa con quell’odore addosso di mughetto e lavanda.

– Se vado lì in mezzo a tanto fetore, lo perderò il suo odore. Smetterà di parlarmi di labbra rosse e carne candida come marmo.

La calca mi travolse. Il vociare dei compagni mi spinse dentro.

– Artù ma che tieni stamattina. Mi pari imbambolato. Hai dormito male?

– Niente solo un raffreddore, smozzicai per pensare ad altro.

continua

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borgodellefavole

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SACRESTIA di BiagioFioretti

Dal libro fotografico “Santi, Madonne e Sacrestie” di Pio Peruzzini.

SACRESTIA

C’è una Quaresima che porta dritto alla Pasqua. Un ventre, un vicolo, una stanza, un corridoio dietro, a latere di un altare. Di tutti gli altari e per ogni chiesa.

  E’ un luogo di frescura, dove raccogliersi e prepararsi. Dove l’umano sveste i suoi panni e i suoi orpelli inutili e sovrappiù e si prepara all’olocausto, al sacrificio, ad immolar l’Agnello.

E’ un cono d’ombra prima della Luce. Quella vera, quella sola. Col frastuono del silenzio che imbeve e nutre pareti e pavimenti, oggetti e paramenti. Raggio di sole quasi, per avvampare il bianco d’un bambino chierichetto. Squarcio d’un divino che stilla clemenza e sorride finalmente al candore d’innocenza. Recinto per un girotondo giocoso e giullare, da smettere e riporre in tasca per farsi servitori sull’altare.

Cola dall’alto la quiete e dà spessore, convinzione, buona novella per provare a patir la grazia e la meraviglia, la misericordia del varcare l’oltre, il già qui, il verrà.

Stato d’animo, libro aperto per ogni affanno, quasi una purificazione per accendere lumi e candele, suppliche e sermoni. Passaggio e soglia che mena e conduce direttamente a Dio Abbà, alla Parola Verbo, al suo fiato Consolatore. Che dispone per il Tu, come preghiera e capo chinato.

Limite e mistero che invoglia e suggerisce l’intuizione del come sarà la casa, l’atrio della sua dimora. Il banchetto nunziale per tutti noi e pure per tanti altri ancora.

 E’ anticamera per palestrare il corpo al sacro, per addurlo al gesto sublime, ascetico, spirituale a motivo di necessità, d’urgenza.  Pane e vino ancora tali e quali, frutto e conseguenza umana. Pronti per divenire cibo e manna consacrata, corpo per il corpo degli eletti.

La sacrestia è, allora e per tutto questo, sempre un suq, meno in colore e più ordinato. Cogli armadi per  casule e piviali, amitti o albe, stole, cingoli o cotte. Per le madie ove riporre calici e patene, pissidi e ostensori, turiboli e navicelle. Scaffali pure, per serbar registri nel formale di apporre firme e di certificare nascite, cresime, matrimoni e funerali.

Territorio atavico e universo in pantofole per presbiteri, diaconi e vescovi, accoliti e ministranti. Uomini per lo più consacrati e poche donne votate al culto. Visi imberbi di fanciulli e suore o barbuti e volitivi di frati, prevosti e monaci. Regno del sacrista o sacrestano, burbero e perenne come le colonne dell’altare.

La sacrestia è questo e talvolta pur altro.

Ventre molle e flatulente. Deviazione inconfessata e messa a tacere, nascosta sotto il tappeto dell’indecenza. E’ usurpazione e violenza ributtante, per come ne approfitta e su chi spergiura.

Per il male che, a pochi passi dall’amore sacrificato e venerato, diventa ancor più osceno e tracotante, sconcio, laido, immondo e ripugnante.

Sacrestia come metafora e antifona dell’umano. Mescita di eroico o meschino, sentiero dall’erba rigogliosa e sconosciuta al piede o palude di fango immoto fino alle caviglie.

BiagioFioretti (ventunofebbraioduemiladieci)

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